Ben ritrovati cari lettori del blog, sono la vostra Komorebi e sono di nuovo qui per il nostro consueto appuntamento mensile dedicato al Joshi. L’argomento che tratterò in questo articolo questa volta non l’ho scelto io, lo avete votato voi tramite un sondaggio fatto da Rachele sulla sua pagina Instagram donnetralecorde. L’articolo di cui sto per parlarvi tratterà un tema piuttosto spinoso che affronto con molto trasporto ed interesse soprattutto perché, essendo fan sia del Joshi che del wrestling americano più mainstream, mi capita spesso di discutere con amici o altri appassionati proprio di questo argomento. Bene, dopo questa piccola introduzione, non ci resta che iniziare.
Le dichiarazioni di Hikaru
L’idea di parlarvi di questo argomento nasce da alcune recenti dichiarazioni dell’ex campionessa femminile della AEW Hikaru Shida. Infatti, in un recente articolo scritto dalla stessa e pubblicato sulla rivista giapponese Weekly Pro Wrestling, Hikaru ha parlato delle difficoltà che le wrestler giapponesi stanno affrontando in AEW per poter emergere. L’ex campionessa AEW ha parlato di come negli ultimi mesi sia diventato sempre più difficile per lei e le sue connazionali ottenere spazio in tv, dovendo anche affrontare le difficoltà di essere atlete straniere negli Stati Uniti e quindi dover fare i conti, tra le altre cose, anche con le restrizioni causate dalla pandemia globale. Eppure all’inizio le cose erano totalmente differenti per loro, perché la divisione femminile dell’AEW si reggeva soprattutto sulle wrestler giapponesi che erano il motore che portava qualità sul ring in un roster femminile alquanto zoppicante e che, soprattutto nel primo anno di vita, non poteva ancora contare su dei nomi di spicco. Difatti nei primi mesi di vita della federazione di Tony Khan, abbiamo visto passare di lì volti molto popolari della scena Joshi. Si pensi alle varie Yuka Sakazaki, Emi Sakura, Maki Itoh, Mei Suruga, Ryo Mizunami, Asuka/Veny o alla leggendaria Aja Kong, solo per citarne alcune tra le più note. Inoltre, c’è qualche altro dato interessante che dimostra quanto inizialmente le Joshi siano state le fondamenta sulle quali è stata costruita la divisione femminile della All Elite Wrestling. Ci basti pensare che sui quattro regni totali dell’AEW Women’s World Championship, ben due sono stati detenuti da wrestler giapponesi. Riho addirittura può vantare l’onore di essere stata la prima campionessa femminile della AEW e la stessa Hikaru Shida detiene tutt’oggi il regno più longevo nella storia del titolo.
Oggi la situazione invece si è capovolta ed è diventato davvero difficile per le wrestler giapponesi imporsi in All Elite, anche a causa di imprevisti come le restrizioni per fronteggiare la diffusione del Coronavirus imposte dal governo giapponese (l’obbligo di quarantena per chi rientra in patria) e statunitense (oggi è molto complicato per gli stranieri anche ottenere un visto per restare negli Stati Uniti). Nella sua rubrica per il settimanale giapponese, Hikaru ha anche lamentato che la totale libertà che la AEW lascia ai propri lottatori, seppure inizialmente possa sembrare un enorme vantaggio, alla fine finisce per diventare un ulteriore ostacolo. Questo perché per un’atleta straniera è difficile imporsi da sola in un paese culturalmente molto differente dal suo e quindi diventa complicato crearsi un personaggio tutte da sole, senza l’aiuto di una scrittura di esperti del settore televisivo che permetta di rendersi interessanti agli spettatori e consentire di ritagliarsi più tempo televisivo. Inoltre, sempre parlando dell’attuale situazione della divisione femminile in AEW, c’è il problema del tempo televisivo dedicato alle ragazze, che è già molto limitato in generale anche per le atlete “di casa” e questo di certo non gioca a favore delle nostre joshine. Hikaru ha parlato anche dell’esperienza della sua collega Emi Sakura, molto nota in Giappone non solo come wrestler attiva, ma anche per aver fondato la federazione di wrestling Gatoh Move. Hikaru racconta di come Emi sia volata negli Stati Uniti con tanto entusiasmo, ma anche come non sia stata convocata dalla federazione per gli show televisivi principali nemmeno una volta.
Poca assistenza e supporto da parte delle federazioni
Sempre all’interno della sua rubrica, Hikaru ha lamentato anche la mancanza di assistenza da parte della federazione che non si è preoccupata di aiutarla a stabilirsi negli USA, costringendola a trovarsi da sola un alloggio in un territorio straniero e a seguire lezioni private di inglese che le sottraevano anche tempo prezioso da dedicare agli allenamenti. Inoltre questa poveretta, dopo tanti sacrifici, è stata pure presa in giro per il suo accento “orientale” da alcuni dipendenti della federazione durante una puntata di Dynamite, tra i quali c’era anche un commentatore in lingua spagnola che ha perso il posto di lavoro in seguito a questo deprecabile comportamento. Tuttavia il problema della poca assistenza da parte delle federazioni di wrestling nei confronti delle atlete giapponesi non è un problema che si presenta solo in AEW. Infatti, anche le esperienze di Asuka e Kairi Sane con la WWE in fatto di organizzazione non sono proprio confortanti. Ad esempio, Kairi, in una recente intervista avuta dopo il suo ritorno in Stardom, ha raccontato di come, quando è passata dal roster di NXT a quello di SmackDown, le sia stato comunicato solo il giorno prima con una telefonata che la informava che il giorno seguente si sarebbe dovuta recare presso l’arena designata dove si sarebbe svolto lo show blu e che si sarebbe dovuta rendere disponibile per prendere parte allo show. Solo arrivata lì ha saputo che avrebbe debuttato in tag team con Asuka per formare con lei la coppia delle Kabuki Warriors. Asuka invece ha raccontato che una volta si è dovuta fare un viaggio di cinque ore in auto per raggiungere l’arena dove si sarebbe svolto Raw, dove però non è stata utilizzata nemmeno per un breve segmento durante lo show. Comunque, a parte le esperienze di Hikaru, Asuka e Kairi che denotano una mancanza di assistenza e sostegno da parte delle federazioni nei confronti delle wrestler straniere che mettono sotto contratto, cerchiamo di capire quali sono gli altri problemi principali che le stelle del Joshi riscontrano una volta giunte negli USA. Partiamo subito col dire che sono vari.
Problemi di lingua
Tra i principali, il primo fra tutti è senza dubbio la barriera linguistica che è da sempre una grossa limitazione per le Joshi che decidono di fare carriera nel wrestling americano. Lo era per Bull Nakano negli anni ’90 e lo è oggi per la Sarray di turno che firma per la WWE e si trasferisce negli USA. Infatti, quando un’atleta giapponese arriva in una major americana, la prima difficoltà che trova è proprio la lingua e con questo non si intende soltanto la difficoltà a produrre promo in inglese, ma è un problema anche di comunicazione con le colleghe durante i match. I casi di Hikaru Shida e Io Shirai sono rari, perché loro due hanno studiato l’inglese in modo più approfondito rispetto a molte loro colleghe provenienti dal Sol Levante. Infatti, Hikaru ha seguito diversi corsi privati sia in Giappone e sia quando si è trasferita negli USA, in primis perché prima di darsi al wrestling voleva fare l’attrice e conoscere la lingua più conosciuta e parlata al mondo, cosa che era un vantaggio importante per la carriera che voleva intraprendere; e poi perché si è impegnata duramente proprio per migliorare ulteriormente il suo inglese dopo aver firmato il suo contratto con l’AEW, sottraendo tempo agli allenamenti per seguire corsi intensivi di inglese al fine di poter produrre anche qualche promo che potesse andare oltre due o tre frasi standard. Io Shirai ha invece un buon livello di comprensione dell’inglese e conosce abbastanza bene anche la grammatica e le parole, ma se questo le permette di scrivere e leggere facilmente la lingua, trova invece diverse difficoltà nella pronuncia.
Molto più frequenti sono invece i casi delle atlete del Sol Levante che giunte negli USA non sanno dire più di due o tre parole in lingua inglese. Considerando quanto sia importante per un wrestler fare un promo in una major (dato che aiuta a sviluppare e a far conoscere meglio il proprio personaggio, oltre che a sviluppare le faide), è facile capire quanto sia limitante non parlare la lingua o comunque non padroneggiarla alla perfezione. Spesso questo obbliga il booking creativo della federazione a dover inventarsi qualcosa per permettere alle atlete nipponiche di fare presa sul pubblico anche senza dire una parola. Ecco perché la scrittura più classica per una Joshi in una major americana si traduce spesso in quella di un personaggio che parla poco e combatte tanto, in modo che si possano esaltare le in-ring skills dell’atleta e sopperire il limite linguistico.
Molti di voi ora si staranno chiedendo: ma se una Joshi non conosce un inglese perlomeno decente è del tutto spacciata in una major americana? No, non è detto. Per fortuna parlare al pubblico è solo uno degli aspetti del carisma di un wrestler, sebbene sia probabilmente il principale. Eppure il caso di Asuka è sicuramente il più atipico nell’era del wrestling moderno. Infatti, se ad atlete come Bull Nakano e Dump Matsumoto bastava l’imponenza e la fisicità per essere carismatiche anche verso il pubblico americano, Asuka non ha potuto contare nemmeno su questi aspetti. Ciò nonostante però, l’imperatrice del domani può vantare uno stint di tutto rispetto in WWE, dove ha vinto praticamente ogni titolo femminile della federazione, la prima edizione della Royal Rumble femminile ed il Money in The Bank, stando sempre piuttosto stabile nelle zone alte della card. Inoltre, quando Becky Lynch si è dovuta assentare causa maternità rendendo vacante il titolo, la WWE ha deciso di puntare su di lei come campionessa in un momento delicato e storicamente difficile per le federazioni di wrestling, dato che la pandemia da Coronavirus ha tolto alla disciplina uno dei fattori principali che portano avanti l’intero business: il pubblico. Un attestato di stima mica male per una che non ha padronanza della lingua. Il segreto di Asuka va riscontrato sicuramente in una mimica facciale ed un carisma estetico che riescono a fare lo stesso presa sul pubblico, nonostante non abbia mai fatto un promo che sia andato oltre poche frasi in lingua inglese. Semplicemente Asuka ha sempre saputo restare nei favori del pubblico, oltre a poter contare su una dote innata che fa comodo ad ogni wrestler: Asuka buca lo schermo ed in tv ci sa stare. E quante ne ho dovute leggere, tra cui: “Eh, ma Asuka non sa fare i promo”. Maledizione, Asuka sa farli eccome i promo, non sa farli in inglese e su quello non si può che concordare.
Il celebre “manifesto” (un articolo scritto da lei sulla celebre rivista Weekly Pro Wrestling dove critica pesantemente tutta la scena Joshi), è probabilmente il work heel meglio riuscito nella storia del Joshi. Ancora in Giappone c’è gente che si chiede se fossero vere dichiarazioni di Asuka (al tempo nota come Kana), oppure se si sia trattato di dichiarazioni fatte in kayfabe.
Fatto sta che grazie a quelle dichiarazioni e ad alcuni promo non molto politicamente corretti fatti successivamente, Asuka riuscì a tirarsi addosso un heat assurdo, tanto da farsi accogliere da bordate di fischi in ogni arena nella quale metteva piede. Addirittura questo work la fece additare come “persona non gradita” da alcune promotion di Joshi che decisero di non voler più bookarla o collaborare con lei. Insomma, tutto questo portò Kana a diventare la heel per eccellenza. Per non parlare delle gimmick in stile horror che ha spesso portato in scena che le permettevano di avere una forte presa sul pubblico già solo per impatto visivo.
Problemi di stile
Un altro problema che limita molto le Joshi in America è lo stile del lottato. Il Joshi, come il Puroresu in generale esalta molto il lato sportivo, adotta mosse di sottomissione più complesse e manovre più tecniche, oltre a prediligere uno stile più stiff. Quindi tra i limiti che una Joshi potrebbe riscontrare quando va a lottare in una major americana, vi è senza dubbio il cambio di stile che deve adottare nello svolgere un match. Un esempio lampante sono le limitazioni al moveset operate dalla WWE nei confronti dei propri atleti che snaturano non poco il loro stile di lotta, costringendoli ad abituarsi ad uno diverso e del tutto nuovo rispetto a quello che padroneggiano da anni e che gli è stato insegnato al dojo. Questo ovviamente non viene bene assorbito da tutte e molte non riescono mai ad adeguarsi del tutto ai nuovi dettami ai quali devono attenersi quando fanno un incontro.
Se Asuka e Io Shirai sembrano essersi adattate piuttosto bene, Sarray inizialmente ha trovato non poche difficoltà ad adeguarsi al nuovo stile. Eppure in Giappone il lottato era il suo punto di forza, oggi passato però in secondo piano perché come è noto le doti in ring da sole possono non essere sufficienti per fare carriera in WWE. Inoltre, in show come Raw, SmackDown, Dynamite o Rampage, il tempo a disposizione è parecchio limitato (soprattutto per i match femminili), mentre le Joshi sono abituate a match che superano i 10 minuti abbondanti e se sono match di cartello o per il titolo possono arrivare tranquillamente anche sui 30 o 40 minuti. Questo ovviamente incide sulla riuscita del match, perché risulta difficile sviluppare un match in scarsi 10 minuti quando sei abituata a costruirlo in 20. Ecco perché, appena approdate ad NXT, molte Joshi vengono istruite sul come sviluppare i propri match con un minutaggio minore rispetto a quello al quale sono abituate.
Problemi di stazza
Anche la fisicità può essere un problema. Infatti, il pubblico americano cresciuto a pane e wrestling, quello più amarcord per intenderci, ha sempre straveduto per wrestler grossi ed imponenti. Infatti, uno dei motivi del successo ottenuto negli Stati Uniti da Bull Nakano è dovuto proprio alla sua stazza. Ecco perché quando le ragazze della AJW andarono a lottare negli USA, non ebbero la stessa presa sul pubblico che ottenevano invece in Giappone, tanto da riempire arene e incollare i telespettatori alle tv. Il pubblico americano voleva vedere scontrarsi tra loro dei tizi grossi e alti due metri, non queste ragazzine piccolette che andavano a cento all’ora ed eseguivano manovre pazze.
Certo, oggi il wrestling è cambiato rispetto al secolo scorso, i lottatori sono diventati più variegati e la stazza fisica è un limite abbastanza superato nel wrestling odierno. Eppure, una parte del pubblico, soprattutto quella più storica, ancora preferisce la fisicità e la stazza imponente. Poi diciamoci la verità, è anche un problema di genetica. Salvo alcuni casi, difficilmente troverete una donna giapponese dal fisico imponente. Ecco perché spesso se non c’è un buon lavoro attorno al personaggio, una lottatrice giapponese rischia di restare una tizia mingherlina che non attira per la sua prestanza fisica e se le manca pure un personaggio carismatico, è difficile che vada molto lontano.
Problemi di cultura
Oltre al fattore fisico, anche le differenze culturali possono essere un grosso limite. Il wrestling americano ha sempre mirato a caratterizzare i propri personaggi, utilizzando spesso anche delle gimmick parecchio stereotipate come quella di Hulk Hogan che incarnava la figura dell’americano vero, oppure Iron Sheik che era il cattivone mediorientale, nemico giurato degli USA. Incentrandosi su uno stile più sportivo, il Puroresu non ha invece mai caratterizzato più di tanto i personaggi. Le gimmick più riuscite nella storia del Joshi non vanno comunque mai oltre qualche elemento che resta piuttosto generico. Anche questo è sempre stato un limite, perché il pubblico americano è abituato a vedere dei personaggi ben definiti e non tizie generiche che lottano sul ring. Ecco perché negli ultimi anni la Stardom sta lavorando molto di più alla caratterizzazione dei propri personaggi: Starlight Kid incarna l’eroina (o la villain visto il suo attuale schieramento da heel); Giulia invece è la soldatessa con tanto di canotta e pantalone militare; Kairi è la principessa dei pirati; Mayu Iwatani porta nel suo personaggio la sua passione per il baseball con tanto di entrata con pallina e guantone ecc. Infatti, il successo di Kairi ad NXT è sicuramente dovuto alla sua gimmick della piratessa, gimmick riuscita molto bene già in Giappone e che in WWE hanno furbamente lasciato invariata, sia per attirare quella fetta di pubblico che già aveva visto le sue gesta in Giappone, sia perché una gimmick così caratteristica avrebbe fatto di sicuro breccia anche sul resto del pubblico che ancora non la conosceva. Mossa che come abbiamo visto ha ampiamente ripagato. Nel loro breve stint, anche le Kabuki Warriors hanno funzionato. Maki Itoh non verrà ricordata come la wrestler più capace in ring, eppure la sua gimmick da idol che canta durante le proprie entrate sul ring ha avuto successo anche negli USA, dove ha divertito i fan della AEW. Insomma, tutti esempi di come la caratterizzazione del personaggio possa essere un vantaggio non da poco per le Joshi, come del resto per ogni wrestler in generale.
In ogni caso, a parte un discorso legato alle gimmick, anche la percezione del wrestling è un po’ differente tra Giappone ed USA. Infatti, se nel Sol Levante il Puroresu viene inteso quasi come uno sport a tutti gli effetti, negli Stati Uniti è più marcata la sua essenza ibrida a metà tra lo sport e l’intrattenimento. Questo inevitabilmente comporta che nelle federazioni americane, soprattutto nelle major, si lavori molto anche su fattori extra ring. Non che in Giappone questo non avvenga, sotto quell’aspetto la Stardom è probabilmente la federazione giapponese più “americanizzata”, (passatemi il termine). Tuttavia, nelle federazioni giapponesi si continua a mantenere una sorta di sacralità per quello che avviene nel ring con la conseguenza che le faide vengono sviluppate molto di più sul quadrato e poco fuori dalla contesa in ring, fatta eccezione per i promo utili ad innalzare l’hype quando si è a pochi giorni da un evento importante o le sfide lanciate tra le lottatrici prima o dopo i match appena disputati. Ecco perché si sente spesso parlare si “serie di match” tra lottatrici, proprio perché le faide vengono portate avanti soprattutto durante gli incontri e spesso si dilungano per mesi, a volte anche per un anno intero, non fermandosi ad uno o due match per chiudere la rivalità. Nelle major statunitensi invece si tende spesso a sviluppare le faide in segmenti o angle piuttosto che nei match, al fine di far culminare la faida in un unico match che spesso finisce per essere piazzato in uno show più importante. Ovviamente non c’è un modo migliore rispetto all’altro per sviluppare le faide, semplicemente sono due tipologie differenti di fare wrestling, legate alle culture dei due paesi.
Con questo termina il nostro appuntamento di marzo. Augurandomi che l’articolo vi sia piaciuto, vi rinnovo l’appuntamento fra un mese con un altro articolo di Joshi Saké. Un saluto dalla vostra Komorebi!
Articolo precedente: Joshi Sakè: Chigusa Nagayo vs Dump Matsumoto, un fuoco che arde ancora
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